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L’invenzione della Neve: un film complesso fatto di amore e disperazione

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È un pugno nello stomaco, è un film duro, che disorienta, da bere tutto d’un fiato salvo poi fermarsi e rivederlo daccapo per coglierne le molteplici sfumature di significato. “L’invenzione delle neve” di Vittorio Moroni, proiettato ieri 15 settembre in anteprima al Cinema Barberini, è incentrato sulla ricerca di affermazione del proprio ruolo di madre di una donna scomoda, fuori dagli schemi, che non riesce a rientrare nel perimetro che la società le disegna sulle forme. La giovane Elena Gigliotti, nel ruolo di Carmen, occupa tutto lo spazio, è un’attrice di talento che divora gli ambienti, le persone, le etichette sociali, gli equilibri.

La pellicola, terminata in soli diciotto giorni, gravita attorno a sei quadri scenici ed è il frutto di un singolare lavoro del regista Vittorio Moroni che ha volutamente girato le scene principali in un arco di tempo di trenta minuti di ripresa, senza interruzioni. Una cifra che ha richiesto agli artisti di sopravvivere agli imprevisti attingendo a piene mani alla propria capacità di improvvisazione, tramutando così ogni momento critico in una nuova opportunità. Ed è questo l’elemento che ha conferito all’opera una forza dirompente, facendo leva proprio sulla sua autenticità. 

 

Sbagliata, impetuosa ed eccessiva, Carmen si presenta nella casa dove ha vissuto con Massimo (Alessandro Averone), per festeggiare il compleanno della figlia. Nasce immediatamente una discussione perché i due, con una storia complicata alle spalle che non si è fatta mancare niente, compresi gli eccessi della violenza e della droga, non hanno un rapporto equilibrato e Carmen in quel momento non avrebbe diritto ad essere lì.

La sregolatezza della ragazza innervosisce, perché non ascolta, non rispetta nessuno se non i propri desideri, è antipatica e fastidiosa. Ma ci rende conto subito che Carmen è una donna fragile, che provoca per difendersi, che arriva al limite perché non ha altro modo per rapportarsi al reale. E lo spettatore, quando se ne accorge, comincia a guardarla con occhi più indulgenti, che corrono lungo il filo della compassione e della comprensione.

 

Se potesse essere come la protagonista lo vorrebbe, il mondo avrebbe i colori e le immagini e le dimensioni degli abissi tratteggiati da Gianluigi Toccafondo, che ha dato vita alla favola tutta inventata che costituisce il filo conduttore dell’unione fra queste due anime complesse, quali sono quelle di Carmen e di Massimo. I toni dei disegni che si animano sullo schermo sono scuri, trasmettono un senso di perdita e di privazione, ma mantengono comunque i tratti del romanticismo che la vicenda riscopre qua e là.

I personaggi di questa storia cercano di difendersi da Carmen. Massimo capisce che se vuole andare avanti deve cancellare tutto, e lo fa simbolicamente ritinteggiando le pareti su cui sono impresse le pennellate rappresentative di fondali marini, di sirene, draghi e pesci. Stessa cosa si potrebbe dire per Sonia (Anna Bellato), che si cela dietro una serie di considerazioni non meglio esplicitate attribuibili al marito per evitare di abbandonarsi al desiderio di sostegno di quella sorella che ama, e che allo stesso tempo la confonde. Eppure, nonostante il loro tentativo di difesa, sia Massimo che Sonia rimangono anime tormentante.

Molto ben delineata, e perfettamente interpretata è la figura di Grazia, portata sullo schermo da una splendida ed intesa Anna Ferruzzo che, in qualche modo, ci restituisce l’immagine di quel mondo esterno disposto ad aiutare Carmen affinché riesca finalmente ad allinearsi ai dettami della società. La relazione fra le due donne è sfaccettata, fatta di mani tese e ritratte, di pungoli stimolanti e, allo stesso tempo, di giudizi che non lasciano spazio ad alcuna forma di giustificazione.

In ogni scena di questo film sembra esserci un bivio, una diramazione che potrebbe portare nella direzione che Carmen vorrebbe seguire. Ma puntualmente arriva il fattore che impone una retromarcia, lasciando la donna da sola ad affrontare un sistema che la punisce per il suo totale disallineamento.

“L’invenzione della neve” è un film che scompagina, disorienta, fa crollare le certezze. Ed è indisponente quel tanto che basta per rivolgerci domande spigolose che, per comodità, evitiamo di porci.