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RICCARDO ROSSI ALL’AUDITORIUM CON “VOLEVO FARE IL MUSICISTA”

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Uno slalom di centoventi minuti bevuti tutti in sorso fra ricordi d’infanzia, episodi dell’adolescenza, celebri brani pescati dal repertorio pop anni ‘80 e ‘90, gag fantasiose, scatti cercati – ma mai rubati – con miti di fama planetaria. Il tutto unito dal fil rouge della musica, compagna di viaggio delle esperienze private così come di quelle professionali.

È un po’ tutto questo, e chiaramente molto di più, quello che racconta «Volevo fare il musicista», uno spettacolo proposto in anteprima nazionale all’Auditorium Parco della Musica e portato in scena il 1° maggio dal simpaticissimo Riccardo Rossi, che si presenta nella struttura posta ai Parioli come un padrone di casa cortese ed accogliente. Ad accompagnare lo show–man in questa carrellata di battute, testimonianze e partiture suonate al pianoforte dallo stesso protagonista è quella che lui stesso definisce, con un pizzico di spiritosa autoreferenzialità, la Riccardo Rossi Orchestra.

Il pretesto della narrazione è costituito da una tessitura la cui trama e l’ordito sono i piccoli e grandi momenti di personalissima vita vissuta: alcuni sono aderenti alla pelle di tutti noi, altri invece sono sostanzialmente irraggiungibili.

Una cosa è certa, per far emergere un testo solo apparentemente semplice, è necessario lavorare con abbondante fantasia e altrettanta dose di intelligenza, cose di cui Rossi evidentemente non difetta. L’artista infatti si muove con disinvoltura nello spazio che delimita la sua area ed entra in empatia con il pubblico avendo il pregio di far salire sulla barca della narrazione ogni singolo astante.

Insomma, in questo lavoro a metà strada fra il concerto e la rappresentazione teatrale, si percepisce un senso di appartenenza collettivo, frutto di impegno, di preparazione e di costante ricerca di affinamento.

Riccardo Rossi racconta le sue esperienze di giovane uomo e ci mostra che, in un periodo storico in cui la rincorsa alla star veniva seguita da una richiesta di autografo, lui era già un antesignano con la sua fissazione di portasi a casa una foto con il personaggio famoso di turno.

E così, lo ritroviamo ovunque: è con Pat Mathney a New York e poi a Roma, è con Michel Bublè a casa di Fiorello. È con Emily Blunt (la meravigliosa Emily de Il diavolo veste Prada), è con Domenico Modugno, è con Leonard Bernstein, con Steve Wonder, con Quincy Jones. E, dulcis in fundo, è con la massima figura di Santa Madre Chiesa, niente meno che con Papa Francesco a cui, con una meravigliosa ed ammirevole faccia tosta, chiede di poter fare un selfie.

Nella platea del Teatro Studio dedicato all’ex assessore alla Cultura della Giunta Rutelli e poi Veltroni, Gianni Borgna, gli spettatori accompagnano ogni singolo passaggio con risate, assecondano le performance con applausi, canticchiano e ballano sulla poltrona al ritmo di canzoni  divenute immortali, interpretate dal timbro deciso della bravissima vocalist Lucy Campati.

In una società in cui è sdoganata ogni forma di volgarità, Rossi è un artista che asseconda la propria natura garbata proponendo di un testo spassoso, educato, godibile dalla prima all’ultima battuta. O meglio, dalla prima all’ultima nota se è vero, com’è vero, che in fondo, voleva fare il musicista